Il salotto di Nonna SperanzaNell'harem con Amalia Nizzoli

di Marinette Pendola

Quando, nel settembre del 1819, la quattordicenne Amalia Sola s’imbarca da Livorno insieme ai genitori e alla sorella alla volta di Alessandria d’Egitto, è ben lungi dall’immaginare che trascorrerà in quel paese nove anni importanti della sua vita. La famiglia si appresta a raggiungere uno zio medico del Defterdar Bey, il ministro delle finanze del viceré Mehmet Alì. Viaggiatrice suo malgrado (mi ricordo – scrive – che io non faceva che piangere all’idea di abbandonare la bella Toscana), la giovane Amalia si rassegna rapidamente ad attraversare il Mediterraneo, distratta dai singolari passeggeri che fanno la sua stessa tratta.
Dopo ventitre giorni di navigazione e uno scalo a Cefalonia, appaiono finalmente le coste africane, ma quella terra che tanto anelava vedere non si offriva all’occhio nudo che come leggerissima nuvola sull’estremo orizzonte. Da quella sorta di miraggio pian piano prendono forma varie costruzioni, primo fra tutti, il palazzo e l’harem del Pascià. Simbolico l’approdo a questa terra che si offrirà allo sguardo curioso sempre attraverso un velo da scostare con tatto e discrezione.

Alcuni mesi dopo il suo arrivo, Amalia sposa Giuseppe Nizzoli, cancelliere del consolato d’Austria ad Alessandria e soprattutto commerciante in reperti archeologici, come facevano tanti altri europei, in un momento in cui andavano costituendosi le principali collezioni egizie dei musei europei. I coniugi Nizzoli raccoglieranno tre importanti collezioni che venderanno agli Asburgo, al granduca di Toscana e la terza al pittore Pelagio Palagi, confluita successivamente nel Museo Civico di Bologna. Il volume Memorie sull’Egitto che raccoglie le esperienze di Amalia Nizzoli fu pubblicato nel 1841, in un momento di grande interesse per il Medio Oriente. Tuttora oggetto di studio e di ristampa poiché desta l’interesse degli egittologi, ha come sottotitolo e specialmente sui costumi delle donne orientali e gli harem, una chiara operazione editoriale, diremmo oggi, per solleticare la curiosità dei lettori, dal momento che solo tre capitoli su dodici contengono descrizioni specifiche sugli harem. In questo nostro primo incontro con la viaggiatrice, vorrei soffermarmi proprio sul suo impatto con la cultura medio-orientale, sui suoi scambi con le donne, sulla vita nell’harem.

Intanto, diversamente da altri viaggiatori, Amalia sapeva l’arabo. Lo aveva imparato nei primi mesi in Egitto da una schiava nera dell’harem di Ibrahim-pascià di cui lo zio era medico. Questo importante passaporto le permise di accedere con facilità all’intimità delle donne turche, come giustamente le chiama, poiché l’Egitto, essendo parte dell’impero ottomano, aveva una classe dirigente quasi interamente turca. Sin dal suo arrivo ad Alessandria, Amalia coglie la diversa condizione delle donne in quella società. La stessa mattina del nostro arrivo [era domenica…] si discese a terra per andare alla chiesa. […] Giunti alla porta della chiesa ci disponevamo come si pratica da noi, a prendere un posto nelle panche di mezzo, ma un prete venne ad avvertirci non essere quello il luogo per le donne, e ci condusse entro una specie di cappella chiusa con griglie e situata di fianco all’altare maggiore. Attraversare la città insieme alla madre e alla sorella è un’esperienza nuova: tutti gli sguardi sono su di loro che, non soltanto indossano abiti occidentali, ma camminano senza velo e senza seguito, poiché –capirà più avanti – le donne che ardiscono mostrare il viso scoperto sono considerate fra loro per iscostumate.

Se gradevole appare il viaggio sul Nilo che li porta prima al Cairo e poi ad Assiut, luogo di residenza degli zii, l’impatto con la città meta del viaggio è perlomeno straniante. […] La zia inviò al momento le solite cavalcature di asini e qualche giumenta, ed un dragomanno [interprete] il quale portò per ciascuna di noi una specie di lenzuolo di tela turchina affinché, secondo l’usanza del luogo, dovessimo con quello nascondere i nostri abiti europei ed il volto. La casa stessa sembra una prigione. Si traversò un altro cortile, poi ancora un terzo prima di poter trovare né vedere la casa. Come! diceva fra me, tre cortili fa d’uopo attraversare prima di entrare in casa? Ella sembra piuttosto un convento. Infatti la casa dello zio era proprietà del Bey il quale vi teneva il suo harem ed ecco perché era costruita a quel modo: la chiudeva tutt’all’intorno un muro altissimo, e nessuna finestra guardava sulla pubblica strada. Nella profonda provincia, Amalia vive una vita di clausura: le è concessa solo la passeggiata serale sulla terrazza da cui si gode un bel panorama, e si ascoltano i muezzin che chiamano alla preghiera con una cantilena piena di dolcezza. Un unico ricordo le rimane di Assiut, quello di aver pianto ogni giorno.


Immagine nella pagina:
Fotografia di un bagno turco

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Aprile-Settembre 2010 (Numero 16)

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