Il 7 settembre 1860, nel Duomo di Napoli, mentre Garibaldi assisteva al Te Deum di ringraziamento per la fuga di Francesco II, una suora benedettina deponeva su un altare il suo nero velo di monaca. Quella suora, che era rimasta quasi schiacciata dalla folla nel tentativo di essere la prima donna di Napoli a stringere la mano al Generale, si chiamava Enrichetta Caracciolo.
Enrichetta nacque a Napoli nel 1821 da don Fabio Caracciolo di Forino, maresciallo dell’esercito napoletano, e da Teresa Cutelli, gentildonna palermitana. Era la quinta di sette figlie femmine, e questo segnò il suo destino, in una famiglia che per generazioni aveva monacato tutte le figlie femmine tranne le primogenite, ed in un’epoca in cui un articolo del codice civile consentiva espressamente ai genitori di rinchiudere le proprie figlie in istituti religiosi, a qualsiasi età. Nonostante la generazione di Enrichetta fosse la prima in cui questa prassi si incrinava (più di una delle sue sorelle si sposò), una serie di circostanze fecero sì che lei fosse destinata ad una monacazione forzata.
Alla morte del padre Enrichetta fu affidata, ancora adolescente, alla tutela della madre, che, avendo deciso di risposarsi, a sua insaputa iniziò le pratiche per introdurla nel monastero di San Gregorio Armeno di Napoli, dove già si trovavano due zie paterne della fanciulla. Nel 1841 Enrichetta pronunciò i voti solenni.
Colta e amante degli studi, nel convento si scontrò con la grettezza e la diffidenza di monache ignoranti, per lo più analfabete.
Si procurò la fama di
rivoluzionaria comprando senza nascondersi i giornali dell’opposizione, che leggeva ad alta voce nel convento, approfittando della libertà di stampa concessa dal papa Pio IX. E proprio incoraggiata dal clima di speranza nel
Papa liberale, nel 1846 presentò al pontefice la prima di una serie di istanze per ottenere lo scioglimento dai voti, o almeno una dispensa temporanea per motivi di salute. Ma l’arcivescovo di Napoli, Riario Sforza, le rivolse un’accanita persecuzione personale, negandole il suo nulla osta, perfino contro il parere del Papa.
Durante i moti rivoluzionari del 1848, mentre le monache pregavano per lo
sterminio dei malvagi, Enrichetta innalzava
taciti voti all’Onnipossente per la caduta della tirannide e pel trionfo della nazione, ma allo scatenarsi della repressione borbonica, temendo ripercussioni per sé e la sua famiglia, preferì dare fuoco alle sue memorie. Nel frattempo riuscì ad ottenere almeno l’autorizzazione a trasferirsi nel Conservatorio di Costantinopoli. Parzialmente sconfitto, Riario Sforza le impose di lasciare in convento le argenterie e le pietre preziose ereditate dalle zie monache.
Immagine nella pagina: Ritratto di Enrichetta Caracciolo