Estratto da: Danze di Luce - Seminario 3, a cura di Elisa Vaccarino, Skira Editore, Milano.
Per gentile concessione del Centro Internazionale Danza, Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto.
Il vasto rinnovamento di cultura e società che caratterizza in occidente il passaggio tra Otto e Novecento abbraccia anche la rifondazione su basi nuove della danza come arte, sottilmente ma intimamente connessa alla rivalutazione del ruolo femminile. Sono, infatti, figure isolate e singolari di donne che, nei decenni immediatamente precedenti alla più diffusa rivoluzione modernista, si evidenziano come perni dei primi moti di innovazione e di riscatto, tanto del mestiere screditato della danza teatrale, quanto della posizione sociale subalterna e passiva della donna. Come sementi anomale e vigorose, questa iniziatrice germoglia in America, terra giovane dalle potenzialità di sviluppo illimitate, per trapiantarsi in Europa, il vecchio mondo bisognoso di innesti eversivi per rigenerare le sue secolari tradizioni.
Nell’atmosfera culturalmente e socialmente in fermento dell’epoca, s’intrecciano scoperte scientifiche e visioni filosofiche, utopie socio-politiche e ricerche artistiche, tutte impegnate nella definizione di un processo progressista che vede al centro un’illimitata fiducia in un Uomo Nuovo, rigenerato nelle sue potenzialità originarie, degno protagonista di una riforma epocale della vita in tutti i suoi ambiti. Negli Stati Uniti, la fede nell’evoluzionismo naturale e sociale alimenta la fiducia nel ruolo guida a livello planetario della fresca Nazione e della sua gente, mentre la maggiore presenza pubblica della donna e il suo addestramento ad una discreta decisionalità, dovuto alla dura esperienza del pionierismo, facilita lo sviluppo della questione femminile. Insieme alle riforme igieniche e dell’abbigliamento, alla rivendicazione del diritto allo studio e al lavoro professionale, anche l’accesso alle arti e all’espressione estetica divengono strumenti e mete dell’emancipazione femminile di fine Ottocento. E poiché lo spettacolo rappresenta uno dei pochi ambiti ricercati, pur se socialmente e moralmente screditato, di emancipazione individuale della donna in quel periodo, e la danza è praticata come attività precipuamente femminile, proprio dalla danza teatrale sorgono alcune personalità e proposte innovatrici. È dall’interno e dall’ovest del paese, terre di frontiera e di donne decise, e dalla danza, espressione quasi interdetta al mondo maschile, che nasce infatti una delle protagoniste: Isadora Duncan (1877-1927).
Sostanzialmente autodidatta nella danza e decisamente anticonformista nel comportamento, dopo aver mosso i primi passi in America ed essersi trasferita in Europa nel 1900, Isadora Duncan riesce ad influenzare il mondo artistico e l’opinione pubblica con la sua visione estetica e il suo atteggiamento provocatorio. Propugna e pratica l’amore libero e la maternità volontaria fuori dal matrimonio - legame che abborre - e compie liberamente le proprie scelte di vita come quelle ideologiche e professionali, pagandone spesso duramente di persona il prezzo. Crede nelle potenzialità rigeneratrici della Natura (letteralmente e metaforicamente intesa) per il recupero di una perduta bellezza fisica e morale della donna, da attuare fin dall’infanzia attraverso la pratica di una danza libera ed auto-espressiva, il cui modello estetico rintraccia nell’arte della Grecia classica. Su queste basi opera per la rivalutazione della danza da mero intrattenimento spettacolare o da artefatto virtuosismo ad Arte dell’espressione psicofisica femminile, adottando, in questo processo, strategie di distinzione adeguate alla temperie culturale della sua epoca. Esalta il corpo della donna, liberato negli indumenti, nei movimenti e nella sessualità, ponendolo al centro della propria visione della questione femminile, di cui non condivide tuttavia i risvolti più nettamente politici e suffragisti.
Immagine nella pagina:
J. P. Fredericks, Isadora dancing in the garden of my studio, 1927 (particolare)