Chi in una qualsiasi mattina d’inverno lasciasse Bologna dalla Via San Donato, si troverebbe presto circondato dalla piattezza del paesaggio avvolto nella nebbia, senza precisi confini, senza altri segni se non qualche spoglio pioppo che si erge solitario in mezzo a un campo o lungo un fosso. Toni sfumati come di acquerelli, rumori attutiti, umidità penetrante: tutto invita a chiudersi in casa accanto a un fuoco scoppiettante e a buone letture. Fu probabilmente in un’atmosfera del genere, in uno di quei lunghi inverni malinconici della campagna bolognese, che nacque una vocazione così forte da cambiare il corso di una vita. Il giovane Pellegrino Matteucci, figlio di una famiglia della buona borghesia, era appena ventenne quando, terminati gli studi in scienze naturali, decise di ritirarsi per qualche tempo nella casa di campagna che la famiglia possedeva a Granarolo Emilia. In questo luogo solitario, lontano dallo sguardo inquisitore del padre, che voleva fare di lui un medico, intraprese lo studio dell’arabo, approfondì le conoscenze sul continente africano leggendo tutto ciò che fino ad allora era stato pubblicato e diede alla sua passione una direzione precisa: avrebbe lui stesso intrapreso viaggi di esplorazione, si sarebbe immerso in prima persona nella calda solarità del mondo africano.
L’epoca in cui si forma il giovane Matteucci è ricca di fermenti. È il periodo in cui le esplorazioni del continente africano si susseguono, accompagnate dal grande interesse dell’opinione pubblica, che segue su riviste e quotidiani le peripezie dei suoi eroi. Fino all’inizio dell’Ottocento, le regioni interne dell’Africa sono pressoché sconosciute agli Europei. È intorno a quest’epoca che nasce la curiosità per quei luoghi e si intraprendono le prime spedizioni. Pian piano tuttavia, all’interesse puramente culturale, subentrano motivazioni più forti legate prevalentemente agli sbocchi commerciali, che sfoceranno successivamente nella spartizione del continente da parte delle grandi potenze. In questa fase di transizione si colloca la figura di Pellegrino Matteucci (1850-1881), che intraprese tre viaggi nelle regioni etiopiche. Se tutti e tre hanno una notevole importanza per l’uomo che li compì, sicuramente l’ultimo riveste quel carattere eccezionale che lo rende unico nel suo genere. Altri esploratori lo avevano preceduto, sebbene non lungo l’identico itinerario, chi scoprendo territori nigeriani, chi percorrendo le regioni dal lago Ciad al Nilo, chi ancora attraversando il Sahara partendo da Tripoli. Tuttavia, per poter penetrare in quei territori, sotto il dominio di sultani estremamente diffidenti nei confronti dell’uomo bianco, gli esploratori avevano dovuto travestirsi da medico turco (Gerhard Rohlfs) o da mercante arabo (Gustav Nachtigal). Una delle sfide di Matteucci fu di affrontare il lungo viaggio senza travestimenti di sorta.
Finanziata dal giovane principe Giovanni Borghese che intendeva dedicarsi alla caccia (è il periodo in cui la gioventù dorata di tutta Europa comincia ad appassionarsi ai safari, lanciandone la moda), la spedizione parte da Suakin sul Mar Rosso il 7 marzo 1880. Ad accompagnare il principe e Matteucci, c’è l’ufficiale Massari, indispensabile per i rilevamenti topografici. Dopo aver acquistato 15 cammelli sui quali vengono caricati i bagagli, ha inizio la marcia verso Berber per tappe di 8-10 ore al giorno. Lungo quel percorso il console inglese Gordon aveva fatto costruire 19 stazioni di posta in cui si potevano trovare acqua e viveri. Ma ben presto i viaggiatori si rendono conto che le stazioni sono tutte ormai ridotte a baracche in rovina e devono quindi razionare le scorte di viveri e soprattutto di acqua, visto che la regione è desertica.
Immagine nella pagina:
Ritratto di Pellegrino Matteucci