
Mia nonna odiava le verdure e le erbe bollite. Diceva di averne mangiate così tante quand’era bambina, raccolte nei campi e semplicemente lessate senza sale e senza condimento, da non poterne più ingoiare nemmeno una foglia. La sua prima infanzia si svolse fra gli ultimi anni dell’Ottocento e i primi del Novecento. Non racconterei questo insignificante dettaglio di vita familiare se raccogliere erbe non fosse stata una pratica comune in tutto l’Ottocento.
Nell’inchiesta del senatore e medico Agostino Bertani
sulle condizioni sanitarie dei lavoratori della terra, pubblicata nel 1890, si legge che
le brassiche in tutte le loro numerose varietà, e poi una quantità di altre piante di cui si mangiano le foglie e le radici costituiscono il companatico del contadino. Naturalmente, il consumo di erbe selvatiche è prevalente nelle regioni a clima mediterraneo, poiché nelle altre l’attività di raccolta, a cui si dedicano le donne, avviene solo nella bella stagione.
Nel 1861, l’Italia unita conta una popolazione di venticinque milioni di abitanti di cui i tre quarti dediti all’agricoltura. Si tratta prevalentemente di braccianti sottopagati, malnutriti, analfabeti (quasi il 75% della popolazione lo è, con punte che raggiungono il 90% come in Veneto). La vita di queste persone è estremamente dura: alla fatica estenuante del lavoro quotidiano eseguito con attrezzi ancora primitivi, per dieci - dodici ore al giorno, si aggiunge una cronica penuria di cibo. Per non parlare delle abitazioni, anguste, senza finestre e quindi mal ventilate, spesso condivise con gli animali, sempre affollate. Infatti, fra il Settecento e l’Unità d’Italia la popolazione quasi raddoppia passando da tredici a venticinque milioni.