Un kolossal dell’ultima era del muto pare una leggenda lontanissima dal presente. La televisione e il cinema di oggi hanno canoni così disincantati e frenetici che Napoléon, ad un primo impatto, è di un lirismo difficile da seguire. Kubrik ne trovò rozze le caratterizzazioni dei personaggi e della storia, ma Abel Gance (1889-1981) apparteneva ad un altro cinema che, lungi dall’esser rozzo, rispondeva ad un’estetica romantica e simbolista.
Nel primo ventennio del Novecento, Hollywood cominciava a ostentare i muscoli della sua prima industria filmica mentre l’Europa si lanciò in sperimentazioni visive e visionarie. Durante l’epoca della Corazzata Potëmkin e di Metropolis, Abel Gance fece evolvere il genere del kolossal. Dietro un raffinato aspetto da dandy, si celava un giovane di umili origini che aveva lavorato duramente per la propria arte. Parigino e figlio illegittimo di un ricco medico ebreo e di un’operaia, Gance abbandonò a soli quattordici anni la scuola per calcare le scene teatrali.
Quello spirito epico ed esteta si rifletté nel monumentale Napoléon. La sua trama, con ardite tecniche di montaggio ed espressive, portò l’impressionismo francese verso orizzonti inediti. Il 7 aprile del 1927 il pubblico dell’Opéra di Parigi ammirò la prima proiezione del film: un formato in polyvision di tre grandi schermi che raccontava Bonaparte in 333 minuti! La titanica lunghezza della pellicola fu la causa di ben 21 revisioni, fino alla versione definitiva di 235 minuti. Abel Gance impiegò ben due anni per girare la sua opera, animato dall’estremismo artistico e dalle discussioni con i produttori.
Immagine nella pagina:
Abel Gance a destra nei panni di Saint-Just, Edmond Van Daële a sinistra in quelli di Robespierre.