Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, la base di Scapa Flow fu di nuovo messa alla prova. Il 14 Ottobre 1939, l’U-boat 47 riuscì a penetrare contro ogni previsione nella baia e affondò la corazzata Royal Oak, con 833 dei suoi marinai: anche questo relitto giace ancora nelle acque delle Orcadi, appena 5 metri sotto la superficie. Nel 1941, da Scapa partì l’incrociatore da battaglia Hood, nella famosa caccia che lo portò al drammatico confronto con la Bismarck.
Ciò che interessa particolarmente noi italiani, a parte i patiti di storia militare, deriva dalle conseguenze dell’affondamento della Royal Oak. Churchill, impressionato dal tragico evento, decise di rafforzare le difese della base militare delle Orcadi, rendendola impenetrabile alle incursioni dei sottomarini tedeschi. Molte vecchie navi furono fatte affondare negli stretti fra le isole, per costituire ostacoli sommersi e che parzialmente affiorano ancora con la bassa marea. Furono progettati anche altri sbarramenti, la cui costruzione fu affidata a 200 prigionieri italiani catturati in Nord Africa ed internati nel Campo 60.
I nostri connazionali lavoravano in condizioni penose, a mollo nelle acque gelide del Mare del Nord, lontani dal sole del Mediterraneo e da qualsiasi cosa che avesse un aspetto familiare o che potesse portare loro un po’ di conforto, nei lugubri inverni di quei luoghi remoti, tra il 1943 e il 1945. Padre Gioacchino Giacobazzi, sacerdote militare del gruppo, chiese al comandante del campo, il maggiore Thomas Pyres Buckland, il permesso di edificare un piccolo luogo di culto cattolico, in cui i compagni potessero radunarsi per pregare e trovare un po’ di sollievo spirituale. L’ufficiale inglese acconsentì, a patto che i lavori fossero effettuati fuori dai già massacranti turni per la costruzione delle barriere e che non fossero usati materiali che, in quel periodo di penuria, fossero necessari allo sforzo bellico.
A tali condizioni, l’impresa era al limite del possibile, ma la forza di volontà e l’ingegno che, quando ben indirizzati, contraddistinguono il nostro popolo, fece nascere la Cappella degli Italiani, conosciuta anche come il miracolo del Campo 60.
La navata fu ricavata dall’acciaio corrugato semicircolare di due Baracche Nissen, l’interno fu rivestito di cartongesso, l’altare e la balaustra furono realizzati in calcestruzzo, la cancellata divisoria dell’abside fu lavorata partendo dal ferro dei relitti, le lampade del soffitto furono ricavate da barattoli di carne in scatola. L’affresco principale, opera del prigioniero Domenico Chiocchetti, raffigura la Madonna con Bambino, tratta da un santino della Madonna dell’Olivo di Nicolò Barabino. Perfino la piccola campana apparteneva ad una nave affondata. Di fronte alla cappella venne infine inaugurato il monumento dei prigionieri di guerra italiani, raffigurante San Giorgio che uccide il drago, realizzato con del filo spinato rivestito di cemento.
Nonostante la povertà dei materiali, il risultato artistico fu stupefacente. L’opera rimase sconosciuta per lungo tempo, fino ai primi anni ‘60, quando un comitato di cittadini delle isole non si incaricò del restauro di quel piccolo straordinario edificio, ormai parte integrante della storia locale. Lo stesso Chiocchetti, grazie ad un contributo della BBC, che realizzò un documentario sulle Orcadi e la guerra, fu invitato a supervisionare ai lavori. Oggi la Cappella degli Italiani è diventata un simbolo di unione tra il popolo inglese e quello italiano ed è censita tra le attrazioni che meritano di essere viste dai visitatori dell’arcipelago. La sua commovente storia resta un richiamo alla pace e alla fratellanza ed è motivo di orgoglio per il nostro Paese. Nel 2014, in occasione del 70° anniversario della costruzione, Papa Francesco ha inviato una speciale benedizione all’edificio di culto, che nel 2015 è stato oggetto di un nuovo restauro.
Immagini:
La Cappella degli Italiani, esterno
La Cappella degli Italiani, interno