Al suo apparire il brusio si appiattì, ma solo per un momento. A Bologna la conoscevano più o meno tutti, eppure, quando la sua figura si stagliava nel vano della porta, c'era nell'aria quell'espressione di attonito stupore, come se improvvisamente si fosse materializzata la donna di un quadro impressionista. Subito dopo le persone ritornavano alle proprie occupazioni: i camerieri a servire ai tavoli e i clienti a chinare la testa nel piatto. Il brusio riprendeva consistenza, a volte si era costretti ad alzare la voce più del necessario per farsi sentire.
Cecilia era lì per caso. Come per caso era andata al Duse quella sera. Il posto di un abbonamento lasciato libero e lei si era trovata nelle prime file della platea a guardare Roberto che gesticolava sul palcoscenico.
Si erano conosciuti l’estate precedente in un villaggio della Turchia. Testimone delle sue intemperanze amorose finite in un tentativo di scazzottata con il rivale, peraltro legittimo, a lui non aveva più pensato fino al giorno in cui se lo era visto capitare in ufficio accompagnato dall'oggetto del contendere. Maria era una bella ragazza bolognese che in quel villaggio turco aveva lasciato il bungalow del fidanzato per infilarsi in quello di Roberto.
Gli aveva confidato di avere intrapreso la carriera di attore teatrale e lei, senza troppa convinzione, gli aveva promesso di andarlo ad applaudire al Duse.
“Fammi sapere quando!”
Erano tornati ognuno nella propria città e alle proprie occupazioni. Cecilia, fino a quella sera, aveva accantonato la faccia sua e quella di Maria. Logico andare a complimentarsi con lui in camerino! Difficile rifiutare l’invito a una cena con l’intera compagnia e per giunta in uno dei più noti ristoranti della città.
“E quella chi è?” aveva chiesto Roberto guardando stupito la figura che si era materializzata all'ingresso del ristorante. Cecilia si era girata e aveva sorriso guardando quella creatura fuori tempo.
“Uno dei personaggi tra i più noti in città pur nei loro misteri che sfociano in tanti: ‘si dice’. E, appunto, si dice viva in Via D'Azeglio, in uno splendido palazzo di sua proprietà.”
Il cameriere iniziò a servire la prima portata e l’interesse generale si concentrò sul cibo.
“Questo è l’ombelico di Venere!” proseguì Cecilia agitando il triangolo di pasta ripieno, infilato nella forchetta, legato come un fazzoletto da cowboy.
“Mi prendi in giro?”
Roberto aveva smesso di mangiare; le mani posate sul bordo del tavolo, guardava la sua amica in quel modo incerto di chi, un po’ suscettibile, non sa se risentirsi o glissare. Anche le facce degli altri attori erano rivolte a Cecilia in quell'attesa sospesa.
“Ma di che parli? – saltò su uno – Dell'Arlecchina?”
“Quella dopo. E, in ogni caso, non è un'Arlecchina! Caso mai una fata uscita da un libro di favole! – ribatté la ragazza – Stavo invece raccontando che i tortellini sono stati inventati, si dice, da un estroso cuoco che si era ispirato all'ombelico della sua padrona!”
“Visto dal buco della serratura!” ironizzò qualcuno.
Cecilia aveva sfoderato un sorriso birichino e si era stretta nelle spalle. Lo stupore iniziale si trasformò presto in un incrocio di battute tra il serio e il faceto.
“E l'Arlecchina che fa?” insistette Roberto, non disdegnando un’occhiata alla signora del tavolo accanto che non gli aveva tolto gli occhi di dosso nemmeno per un istante. Era conscio di essere un bel ragazzo, un dosato incrocio tra una finlandese e un torinese con antenati siciliani. Cecilia fece spallucce, il narcisismo del suo amico non era affare suo e, in quanto a Maria, beh… poteva sempre tornare a cambiare bungalow!
“Vende fiori! Non vedi?” rispose poi fermandosi ad osservarla.
Il sorriso immobile su una faccia con l’espressione curiosa dei bambini che non sanno, lei si muoveva leggera tra i tavoli, intrattenendosi con i clienti, mostrando garbatamente la piccola cesta e offrendo i fiori ivi contenuti. Rispondeva quieta e paziente alle domande senza mai abbandonare quel sorriso fermo, come dipinto.
Quella sera vendeva primule, le stesse che portava stampate nella gonna ampia del vestito. Il corpetto era di colore viola come il buffo cappellino, una calotta con intorno una piccola tesa, posato sul capo in modo piuttosto precario. Qualche ciocca birichina, capelli candidi con una venatura di azzurro, le ricadeva sulla fronte.
A Cecilia ricordava le fate. Avrebbe voluto farle un cenno, invitarla al tavolo, parlare un poco con lei. Accantonò l’idea, un po’ per timidezza, un po’ per il timore di ironie da parte di quegli attori con cui condivideva un tavolo e una cena.
Fu la fioraia a venirle accanto per offrirle un piccolo mazzolino di primule.
“Le porteranno fortuna!” disse. Il suo sguardo sembrava andare oltre Cecilia e la saletta del ristorante. Il suo sorriso sembrava rivolto all'invisibile.
Un lieve imbarazzo attraversò il tavolo in tutta la sua lunghezza, poi tutti chiesero di acquistare un mazzolino da donare alle signore. Cecilia affondò la faccia nell'oro dei fiori e dopo alzò lo sguardo verso la figura delicata, eterea, fiabesca.
“Grazie! – disse lei osservando la piccola cesta contenente, ormai, solo un minuscolo lembo di stoffa a fiori gialli – Vendo poco ora. Ovunque ci sono i bambini venuti da chissà dove con le loro rose dentro il cellophane. La gente preferisce quelle!”
Cecilia abbassò gli occhi sul piccolo bouquet che teneva in mano: le primule, così delicate, così vive dentro la corolla di carta viola, morbida come stoffa leggera!
“Sono belli i suoi fiori! – disse – Grazie a lei!”
La osservò mentre si allontanava nel brusio che sembrava ancora più alto come volesse cancellare la sua figura anacronistica, la sua discrezione, quel suo essere signora anche negli orli consunti della gonna che sfiorava il pavimento.
Più tardi quando, assieme agli altri, Cecilia si trovò immersa nell'atmosfera magica di Piazza Maggiore, le sembrò di scorgere la donna dei fiori nell'ombra dei portici del Palazzo dei Banchi.
La seguì con lo sguardo mentre attraversava la piazza a piccoli passi, senza fretta, quasi volesse gustare la notte nell'alone svanito dei lampioni. Improvvisamente scomparve all'angolo di Via D’Azeglio.
Cecilia, ragazza del duemila con la voglia di favole, avvertì un piccolo strappo dentro. Un po’ come le avessero rubato un pizzico di magia, un sogno, la fata delle favole che le raccontavano da bambina.
Si guardò intorno in cerca di consolazione. Gli attori erano lontani, davanti al Nettuno a spruzzarsi d’acqua come persone che non hanno pensieri.
Due mesi dopo Cecilia, tornata alla vita di sempre, incontrò casualmente la donna dei fiori. Sembrava in attesa di qualcuno, proprio in Via D’Azeglio. D’impulso le andò incontro, la salutò, la presentò al suo ragazzo come fosse un’amica conosciuta da tempo. E lei, la fata delle sue favole, raccontò di quel cameriere che, in un ristorante, sbadatamente l’aveva fatta cadere.
La fioraia chiese un piccolo favore: portare su al terzo piano il sacco che stava ai suoi piedi. Cecilia acconsentì con gioia. Avrebbe voluto essere lei una fata, avere una bacchetta magica per toglierle tutti i fastidi e il dolore alle ossa. Per poterla incontrare ancora mentre camminava leggera, come le fate che non toccano terra.
Nota dell’autrice: La fatina dei fiori si chiamava Sara Maranelli ed è morta a Bologna, a 84 anni, il 30 agosto 2010.
(Il racconto è tratto dalla raccolta Dedicato a Bologna. Conoscerla per amarla, Tipografia Irnerio, 2005. Progetto ed elaborazione grafica a cura di Fosca Andraghetti col patrocinio dell’Associazione Culturale “Lo Specchio di Alice” - Università Primo Levi)
Immagini:
Sara Maranelli, soprannominata La Fatina dei fiori, foto Schicchi apparsa sul Resto del Carlino
Alfredo Marchi, Monumento alla Fatina dei fiori, 2017, Castel d’Aiano (Bo)