Eppure, nonostante le ristrettezze ed i dolori, non si era mai pentita di nulla, allora come adesso. Si stringeva al suo José, ora come allora, e continuava a guardarne il bel volto dagli occhi azzurri e dai capelli biondi, con amore e con orgoglio. Già: era sempre stata tanto orgogliosa di lui e dei suoi successi…
Come quando era arrivata per la prima volta in Italia: si era aspettata di trovare soltanto la madre di Giuseppe ad accoglierla ed invece, come lei stessa scrisse: “…più di tremila persone vennero a Genova, sotto le finestre, gridando Viva Garibaldi!”. O come quando erano arrivati a Roma, dopo le delusioni della campagna del 1848 in Lombardia. Anche nella Città Eterna Giuseppe era stato accolto come un eroe ed un liberatore. Per la verità, il marito aveva tentato di rimandarla a Nizza ma Anita, dopo i lunghi mesi di separazione nei quali lui si era battuto nel Nord Italia, non ce l’aveva fatta a stare ancora separata dal suo amato, e lo aveva presto raggiunto.
Dio mio, Anita! Cos’hai fatto? Perché non mi hai dato retta? Perché non sei partita quando potevi…. Giuseppe era tormentato da questi dolorosi pensieri mentre, arrancando sugli ultimi, sconnessi gradini, entrava nella povera stanzetta, sempre tenendo in braccio la sua dolce Anita…
Era il 2 luglio 1849, appena un mese prima, quando si era precipitato a Palazzo Corsini, scongiurando la moglie di fuggire via finché poteva, mentre i francesi stavano ormai entrando nell’Urbe Eterna. Anita non aveva voluto sentire ragioni ed era partita con lui, in quel pazzesco tentativo di raggiungere Venezia la quale, tenendo alto il nome d’Italia, ancora resisteva allo straniero. Avevano attraversato Tivoli, Rieti, Terni, Todi, Orvieto, e poi Chiusi, Montepulciano, Arezzo, Sansepolcro. A volte accolti come eroi, altre volte respinti come banditi. Uno dopo l’altro, i volontari di Garibaldi erano morti, caduti prigionieri degli imperiali o dei pontifici, o semplicemente scappati. Quindi, la breve sosta a San Marino, che aveva offerto un temporaneo asilo ed una pausa ristoratrice ai fuggitivi. Alle porte della Repubblica del Titano, Anita, pur febbricitante, aveva dato nuova prova del suo coraggio riuscendo, al comando della retroguardia garibaldina, a respingere un attacco austriaco.
Poi, l’imbarco dei superstiti a Cesenatico: la via di terra per Venezia era ormai chiusa, ma anche il tentativo di raggiungere la Città di San Marco via mare era destinato a fallire. Inseguiti dalle navi austriache, erano stati costretti a sbarcare presso Punta di Maestra e si erano, quindi, inoltrati verso l’interno del Ravennate. A piedi, in barca, su di un carretto. Tra la macchia, le lagune, le paludi. Di casolare in casolare, cercando ospitalità dove si poteva. Braccati, inseguiti, tra stenti e sofferenze, Giuseppe ed Anita continuavano ad avanzare, alla ricerca di una disperata salvezza. Ma lei, ormai, non resisteva più: pur cercando di rassicurare l’amato, le sue condizioni si facevano di ora in ora più disperate. Sviene una prima volta, poi di nuovo, mentre una schiuma biancastra le cola dalla bocca…
Giuseppe posò con delicatezza la sua piccola Anita su di un pagliericcio improvvisato. Un refolo di vento gelido spense la fiammella della candela, portandosi via anche la vita di Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva, a tutti nota come Anita Garibaldi. Era il 4 agosto 1849, e non aveva ancora ventotto anni…
Immagine nella pagina:
P. Bouvier, Garibaldi e il Capitano Leggero trasportano Anita morente, 1864, Museo del Risorgimento, Milano