Una sera imprecisata del 1840, Alexandre Dumas e Rossini cenarono insieme a casa di quest’ultimo a Bologna. Gastronomi appassionati entrambi, possiamo immaginare quali furono gli argomenti di conversazione. Dalle descrizioni di Dumas, scopriamo una Bologna vista dagli occhi di uno straniero, una Bologna in qualche modo esotica. Entriamo in un interno ottocentesco e partecipiamo ai suoi riti sociali. Tuffiamoci dunque nelle atmosfere del tempo…
Nel 1840, tornai in Italia per la terza o quarta volta ed ero incaricato dal mio buon amico Denniée, ispettore militare, di portare uno scialle di pizzo alla signora Rossini che abitava a Bologna con l’illustre compositore […]. Andavo a Firenze, era l’ultima tappa del mio viaggio; ma, anziché fermarmi là, ebbi l’idea di spingermi fino a Bologna per sbrigare la commissione da degno messaggero e consegnare io stesso lo scialle nelle belle mani della persona a cui era destinato.
Ci volevano tre giorni per andare; tre giorni per tornare, più un giorno di sosta, sette giorni in tutto, sette giorni di lavoro spesi, perduti. Ma, in fin dei conti, avrei rivisto Rossini, Rossini che probabilmente si era esiliato per il timore di cadere nella tentazione di fare qualche nuovo capolavoro. Ricordo che fu verso sera che arrivai a Bologna. La città sembrava da lontano come immersa in una sorta di vapore su cui s’innalzava, staccandosi dal fondo scuro dell’Appennino, la cattedrale di San Pietro, e quelle due rivali della torre inclinata di Pisa, la Garisenda e l’Asinelli. Ogni tanto il sole, sul punto di tramontare, lanciava un ultimo raggio che accendeva i vetri di qualche palazzo, ed era come se le camere di questi palazzi fossero in fiamme, mentre il piccolo fiume Reno, in cui si riflettevano tutti i colori sfumati del cielo, si contorceva nella pianura come un nastro di moire argentato; pian piano il sole calò dietro la montagna; i vetri, dapprima sfavillanti, si spensero pian piano. Il Reno assunse il colore plumbeo dello stagno; poi venne la notte rapidamente e avvolse la città di veli neri presto squarciati da mille punti luminosi quanto quelli che brillavano nel cielo. Erano le dieci di sera quando entrai con tutta la mia roba nell’albergo dei Tre Re. Fu mia cura spedire immediatamente il mio biglietto da visita a Rossini, il quale mi fece rispondere che a partire da quel momento il suo palazzo era a mia disposizione. L’indomani alle undici ero a casa sua. Il palazzo di Rossini è come tutti i palazzi italiani, un insieme di colonne di marmo, affreschi e quadri. Il tutto così spazioso da farci entrare tre o quattro case francesi, costruito per l’estate mai per l’inverno, cioè pieno di aria, ombra, frescura, rose e camelie. In Italia si sa, sembra che i fiori crescano negli appartamenti e non nei giardini, in cui non si vedono e non si sentono che cicale. Rossini abitava in questo mondo di saloni, camere, anticamere e terrazze. Sempre allegro, ridente, pieno di brio e di spirito; sua moglie, al contrario, attraversava questi stessi appartamenti, sorridente anche lei, ma con incedere lento, austera e bella come la Giuditta di Horace Vernet. S’inchinò davanti a me e io le posi sulla testa il famoso scialle nero che era la causa della mia visita a Bologna. Rossini si era già occupato della cena. Desiderava farmi trovare dei convitati che fossero gradevoli e, sapendo che dovevo recarmi un giorno o l’altro a Venezia, aveva invitato un giovane poeta veneziano di nome Luigi de Scamozza che aveva appena concluso gli studi in quella famosa università di Bologna che ha dato questo motto alla moneta della città: Bononia docet
. Avevo quattro ore davanti a me per visitare Bologna, che contavo di lasciare l’indomani con l’idea di tornarci quanto prima, pregai Rossini di scusarmi e mi affrettai ad uscire mentre l’illustre maestro scendeva in cucina a prendersi cura di un piatto di stuffato (sic!) accompagnato da maccheroni, per la cui preparazione Rossini ha la pretesa di non avere eguali in tutta la penisola italica dopo che il cardinale Alberoni è morto. Immagine nella pagina: Alexandre Dumas