Osservate. Ecco, dall’esterno, la villa del Principe nell’ora in cui, prima di cena, la famiglia raccolta nel salone come in un quadro antico, smozzica il rosario: nei grandi balconi, sulla facciata d’oro sonnolento, impolverato, le tende si gonfiano di tepida brezza... e con uno di questi refoli, per così dire, entriamo. La preghiera è macchiata da lontani clamori; il biglietto di un parente informa Salina che la rivolta è scoppiata; il rosso malpelo di Genova è sceso a Marsala con i suoi mille pezzenti (fate la carità di un’Italia unita... ci raccomandiamo, o siciliani, al vostro buon cuore), e l’emblematico alano di casa fiuta negli accorrenti aliti marini ai quali ho accennato un aroma di sangue che lo agita. […] Il Principe ordina la carrozza e va a dare un’occhiata a Palermo. Il fatto è che le stragi e l’amore (quello fomentato dalle ghiandole) si chiamano per misteriose vie; il Principe ha voglia di una calda meretrice che gli offra le sue gioie rozze ma totali come il formaggio e le pere divorati nel pagliaio senza mediazione di tovaglia e di posate. Qui l’obbedienza di Luchino al sobrio Tomasi diventa cilicio: non vediamo che un braccio tondo e bianco cingere il collo di Salina e non udiamo che un Uh, principone mio..., poi le tenebre di un’eroica dissolvenza inghiottono la scena, e addio. Ma in quale brano di questo Gattopardo, Visconti non eccelle? Il viaggio a Donnafugata, quelle campagne viziose, onanistiche, di una morbida carnalità, nei sobbalzi delle carrozze, o levigate dai vapori meridiani intorno alla colazione imbandita sull’erba. […] Il ballo. Sì, è una sequenza magari eccessivamente protratta, ma formidabile, eccelsa. La virtù di Luchino si sfolgora; è mezzogiorno, qui, per il suo talento. Inchiniamoci... quando ci vuole ci vuole. Tagliare, sveltire, ha sentenziato più d’uno. Il diavolo che vi porti: ma se contemporaneamente al ballo il regista ha sulle braccia il declino morale e fisico del Principe, che nel romanzo occupa quasi trent’anni! Dobbiamo vederlo, il Salina, uscire dal palazzo Ponteleone col gusto delle proprie ceneri sulla punta della lingua! E Visconti riesce, contrapponendo iteratamente il protagonista e lo sfondo, a ottenere l’ardua sintesi che gli preme.
Giuseppe Marotta,
L’Europeo, aprile 1963
Visconti, si sa, non era un regista fedele ai testi letterari cui s’ispirava. Trattava quasi sempre le fonti letterarie come semplici canovacci, di cui spesso usava situazioni, dialoghi e personaggi, ma allontanandosene poi radicalmente in quanto a struttura e senso, sì da potersi permettere di non citarli neppure nei titoli di testa. E non solo per una questione di diritti. La verità è che il più letterato fra i nostri registi aveva, di fronte ai testi letterari, lo stesso atteggiamento che adottava di fronte alla concreta realtà socio-antropologica: come i dati della oggettiva realtà effettuale, anche quelli della fittizia realtà letteraria costituivano lo spunto iniziale, il punto di partenza, cui spesso liberamente, e a piene mani, attingeva; ma poi gli uni e gli altri venivano sottoposti a radicali mutamenti di senso, a mescolanze che ne trasfiguravano le valenze originarie, a veri e propri processi di reinvenzione che ne cambiavano funzioni e significato. È proprio alla luce di questa norma del rapporto viscontiano con la letteratura che il caso de Il Gattopardo appare significativamente eccezionale, se non del tutto straordinario, nella filmografia viscontiana.
Lino Micciché, 1996