
Benché la carne, a metà dell’Ottocento, fosse presente con continuità solo sulla tavola dei benestanti, complessivamente il consumo pro-capite all’anno di alimenti di origine animale era per i bolognesi di circa 50 kg, quando per i francesi era di 25, per gli inglesi di 28, per i belgi di 8, per i napoletani di 38 e per i romani di 44.
Il sostentamento delle famiglie contadine era basato fondamentalmente sull’autoproduzione, nella quale un ruolo primario aveva il suino, macellato tradizionalmente nel periodo invernale. Il giorno in cui si uccideva il maiale era una occasione festosa e conviviale: in quel giorno si consumava carne fresca e si preparavano salumi, salsiccia, lardo e strutto da conservare. A metà Ottocento la richiesta di carne suina superava la capacità di allevamento, anche a causa della forte esportazione. Venivano così importati suini dalla Romagna (la
Mora, razza autoctona) e dalla Toscana.
Elevato era anche il consumo di pesce sia di mare che di acqua dolce che giungeva in tempi brevi a Bologna, spesso lungo il canale Navile.

Tra i dolciumi tradizionali di Bologna sono da citare la ciambella (
brazadèla), la pinza (pasta dolce ripiena di mostarda), i
gialletti (biscotti fatti con farina di granoturco, burro, pinoli e uva passa), gli zuccherini per le nozze, la torta di riso per gli
addobbi (celebrazioni delle decennali eucaristiche delle varie parrocchie) e il celebre pan speziale (o certosino).
Va sottolineato che nel territorio bolognese, particolarmente nella zona collinare, si ricavava un ottimo olio d’oliva in quantità però insufficienti per soddisfare il consumo dei bolognesi. La produzione era calata in seguito a inverni particolarmente rigidi, come quelli di fine Settecento, per il diminuito interesse degli agricoltori per questa impegnativa coltura e a causa della concorrenza di olio proveniente da altre zone d’Italia. Veniva impiegato anche lo strutto, soprattutto nelle campagne, mentre i ceti abbienti utilizzavano anche consistenti quantità di burro.
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