Il salotto di Nonna SperanzaGaribaldini fra guerre e cibo

di Marinette Pendola

Il pessimo cibo distribuito ai volontari fu spesso causa di ribellione. Ad Ancona, vennero distribuiti del pane e una piccola forma di cacio per ogni quattro persone (p. 59). Ma, continua il giovane fiorentino, intanto con la punta della baionetta dividevamo in quattro porzioni il cacio, uno scoppio d’indignazione echeggiò per tutte le file: migliaia e migliaia di bachi popolavano quelle luride forme. Si ruppero i ranghi, e le forme volavano in aria, e andavano a cercare il groppone di quelli che ce le avevano distribuite (…) (p. 59). Gli anconetani, di fronte a questo trattamento considerato indegno per gente che va a battersi per l’Italia (p. 60), provvidero a procurare pane buonissimo e frutta squisite (p. 61).

Una volta al fronte, procurarsi da mangiare diventava ancora più complesso, soprattutto se nei paesi attraversati non c’erano locali pubblici. Andavamo dunque nelle case della povera gente a farsi imprestare il camino, ci mettevamo in fila ognuno con la roba cruda in mano, e si dava fuoco alla legna. (…) Andava uno con le mani piene di pesciolini e con una porzione di lardo, e buttando ogni cosa nella padella faceva arrosolir la frittura; poi entrava un altro col tegamino delle uova, poi un terzo con un pezzetto di carne da fare arrostire, il quarto con belle targhe di polenta da friggere sulla gratella (p. 104). Alcune zone erano così povere che appariva difficile riuscire a trovare qualcosa da mettere sotto i denti.

Riferisce il garibaldino Augusto Diolaiti: Fummo assaliti dallo sconforto ma ci rianimò la notizia che il prete locale forse avrebbe potuto darci qualcosa: e così fu. Ci arrivò un sacco di polenta che diversi garibaldini s’incaricarono di cuocere in un caldaio che avevamo trovato. Cotta alla meglio distendemmo la polenta su una vecchia porta pulita. Dio solo sa come ne ebbi una porzione che misi nel coperchio della gavetta; ma per quanta fame avevo non sarei riuscito a mangiarla così come era fatta se il mio amico caporale Sanchietti Antonio, non avesse avuto un pezzo di burro regalatogli da una famiglia del paese (RG).

In modo del tutto inconsapevole, i giovani garibaldini, nel descrivere fatti e situazioni, ci offrono uno spaccato realistico dell’Italia preunitaria in cui la popolazione benestante è una sparuta minoranza.
Riferisce il giovane fiorentino: La carne in Acquaviva (Puglia) è un mito: a chiedere una minestra e un po’ di lesso, non capiscono neppure. Si cibano soltanto di salumi e formaggio, e nelle case accendono di rado il fuoco (p. 33). Ignaro del fatto che il cosiddetto mangiare asciutto è tipico di quelle popolazioni che non hanno nulla da mettere in pentola e che pertanto danno fondo alle poche provviste accumulate in momenti migliori, il giovane garibaldino così prosegue: Un paio d’uova al tegame è il non plus ultra della splendidezza culinaria; ma credo che le mangiasse a malapena il Sindaco, e neppure tutti i giorni (p. 33).


Immagine nella pagina:
Giovanni Fattori, Episodio della Battaglia di Custoza (particolare), 1870, Pinacoteca di Brera, Milano
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Aprile-Settembre 2007 (Numero 7)

Anita Garibaldi, Museo Civico del Risorgimento, Bologna
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