Ciò che permane nel tempo non sono oggetti, ma pratiche, che ci sono giunte soprattutto attraverso i trattati e memorie di coreografie, documenti che fissano il ricordo e ne restituiscono la fisionomia attraverso la molteplicità dei fattori che essi custodiscono: repertori, nozioni, strumenti espressivi e tecniche del danzatore, produzione di immagini e di simboli.
Il trattato di Domenico da Piacenza affronta, per la prima volta, il tema della danza da un punto di vista scientifico, e lo fa inserendosi con una propria dignità nello sviluppo di un pensiero autenticamente rinascimentale in equilibrio tra naturalismo aristotelico e classicismo senza creare fratture col pensiero scolastico medievale col quale Domenico intende fare i conti, pur essendo già influenzato dal nuovo pensiero umanistico.
Poiché la danza è un moto del corpo, essa è un fenomeno naturale connesso all’uomo. L’essenza, e quindi la sostanza, della danza è il movimento, elemento naturale, originario del divenire, cui le qualità di agilità e singolarità conferiscono, tuttavia, un carattere di extraquotidianità che Domenico definirà più avanti accidentale, seguendo la dialettica naturale/artificiale formulata da Aristotele nella Fisica.
La danza è una virtù etica, ma lo è solo nella misura in cui, come ogni arte e scienza è addestrata dall’abitudine. L’uomo è per natura atto ad accogliere le virtù, ma queste si perfezionano solo mediante l’esercizio: si diventa costruttori costruendo, si impara a suonare la cetra suonando, e verrebbe da aggiungere con Domenico, si impara a danzare danzando.
Guglielmo Ebreo da Pesaro (allievo di Domenico da Piacenza), De Pratica seu arte tripudii, 1463 (particolare)