Il salotto di Nonna SperanzaIl Morbo corre con insonne possa

di Marinette Pendola

Nel 1855, le autorità si comportarono in un primo momento nello stesso modo, non interrompendo i contatti con le zone infette della provincia. Quindici giorni dopo il primo decesso, finalmente si dovette ammettere che il colera era in città. Nel Palazzo del Podestà si istituì un Ufficio Centrale Sanitario e la città fu divisa in quattro quartieri: S. Francesco, S. Giovanni in Monte, S. Giacomo e S. Maria Maggiore in ognuno dei quali fu aperto un Ufficio di Soccorso; furono inoltre istituiti uffici periferici fuori porta: Alemanni, Arcoveggio, S. Egidio, S. Giuseppe, S. Ruffillo e Bertalia. Furono creati luoghi di ricovero fra cui il Lazzaretto S. Ludovico in via del Pratello.

Lo schema organizzativo per contrastare il colera può apparirci rigido. D’altronde non si sapeva di preciso da che cosa bisognava difendersi e come. S’ignorava quasi tutto della malattia. Si sapeva che proveniva dall’Asia, che si manifestava dapprima con dolori addominali e diarrea, che, nella sua rapida evoluzione, portava al cosiddetto stadio di algidismo con abbassamento della temperatura, poi collasso e morte. Era dunque una malattia esotica che, per il suo carattere subitaneo, violento e misterioso colpiva l’immaginazione collettiva.

Il morbo asiatico era ancora di là dai confini, che già occupava le menti e i discorsi, come un’ombra nera e minacciosa, scrive la storica Forti Messina. Alcuni studiosi, fra cui Pacini a Firenze nel 1854, avevano osservato il vibrione al microscopio, ma la loro prematura scoperta passò inosservata e soltanto nel 1883 Koch individuò, con strumenti più adeguati, il vibrio cholerae e ne capì il ciclo vitale. Di conseguenza si seppe che il vibrione vive in ambiente acquatico e nell’intestino umano.

Ma nel 1855, s’ignorava tutto ciò. La popolazione reagiva partendo per zone di villeggiatura se era benestante, o partecipando a grandi riunioni di preghiera nelle chiese della città. A livello di profilassi, furono vietati alcuni cibi. Ma non tutti si attennero alle regole.

Così si esprime la padrona del Caffè della Fenice rivolgendosi a una cliente: Adesso non vanno via in tutta la mattina dieci caffè col latte! Tutti vogliono il caffè coll’ovo! Perché dicono che il latte fa male! Fa venire il colera! Io per me le ritengo tutte corbellerie! Io seguito a prendere il mio caffè col latte; io mangio il popone, condisco le vivande colle solite salse, col pomodoro; mangio fichi col salame, eppure son qui, grazie a Dio, sana e salva.

Scene di questo genere appaiono nel romanzo Teresina Rodi e un medico omeopatico all’epoca del colera in Bologna, pubblicato nel 1856, di cui è autore l’avvocato Farnè, romanzo di scarso interesse letterario ma che descrive molto bene la realtà di quei terribili mesi. Nessuno tuttavia mise mai in relazione la diffusione del morbo con i numerosi canali che attraversavano la città.


Immagine nella pagina:
Illustrazione a p.26 del romanzo di E. Farnè del 1856
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Maggio 2019 (Numero 29)

Anonimo, Li 8 agosto 1848. La cacciata dei tedeschi da Porta Galliera dal Popolo Bolognese, 1848, Museo civico del Risorgimento di Bologna

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