Questa integrità, che pervade ed influenza il comportamento e la poetica di Dante, certamente suscita forte condivisione in Mazzini, che assimila il tentativo paterno di riportare un figlio sulla retta via, rimproverandolo aspramente, seppur con sconfinata pena nel cuore, perché vede nel suo futuro la rovina, alle graffianti accuse di Dante rivolte a chi sta portando alla rovina di Firenze, indipendentemente dal legame personale o dalla fazione politica a cui essi appartengano. Egli inveisce agramente contro le colpe, onde l’itala terra era lorda, ma non è scoppio di furore irragionevole, o d’offeso orgoglio; è suono d’alta mestizia, come d’uomo, che scriva piangendo; è il genio della libertà patria che geme sulla sua statua rovesciata, e freme contro coloro, che la travolser nel fango.
I lamenti imbevuti delle lacrime del poeta nella Divina Commedia, dice Mazzini, manifestano non solo il suo grande senso di giustizia, ma anche la sua dignità, poiché mai perde il senno cimentandosi in discorsi eccessivamente disperati, ma, nello sfogo di rabbia e costernazione, mantiene sempre chiaro e brillante il lume della propria ragione, diremmo oggi mantenendo in vita nella tradizione linguistica una forma introdotta da Dante stesso. Queste invettive, però, si alternano ad indulgenti e nostalgici ricordi, quasi lacrimevoli, dei rimpianti tempi in cui il poeta era ancora a Firenze, impegnato in politica, e i Guelfi Neri non avevano ancora preso il potere con l’aiuto del Papa.
Tanto Dante amava la propria città da illudersi che con la Divina Commedia, capolavoro indiscutibilmente collocato fra le opere maestre della letteratura italiana, avrebbe potuto ottenere un’amnistia non degradante per lui, così da poter tornare a Firenze. Vana è stata la sua speranza, viva fino al suo ultimo respiro, esalato a Ravenna fra il 13 e il 14 settembre 1321. Speranza che invece per Mazzini, seppur illegalmente, è riuscita a realizzarsi. Infatti, come similmente vissero, esuli e combattenti per i propri ideali, altrettanto diversamente morirono. Giuseppe Mazzini, sotto la falsa identità di dottor Brown, il 10 marzo 1872 riuscì a spirare in terra italiana, a Pisa, dove era giunto poco più di un mese prima. Morì nella nazione che aveva contribuito, apprezzato o meno che fosse il suo ideale, a costruire. Estraneo, di fatto, come era stato Dante a Ravenna, ma nella sua stessa patria.
Immagine nella pagina:
Silvestro Lega, Giuseppe Mazzini morente, olio su tela. Rhode Island School of Design Museum, Providence USA.