A woman should love Bologna, for there has the intellect of woman been cherished, scriveva la giornalista e patriota statunitense Margaret Fuller nelle sue memorie del 1847. Una donna dovrebbe amare Bologna, perché proprio in questa città si coltiva l’intelletto delle donne. Passeggiare per la città felsinea creava una sorta di coscienza del sé, esponendo allo sguardo busti di grandi donne, come sottolineava Fuller, da Properzia de’ Rossi a Elisabetta Sirani a Lavinia Fontana.
A partire dal XVIII secolo, e soprattutto poi nel XIX secolo, sempre più donne si misero in viaggio per ampliare i propri orizzonti culturali e acquisire una formazione internazionale, entrando come protagoniste nella storia del Grand Tour, tradizionale viaggio educativo e culturale dei giovani uomini appartenenti all‘aristocrazia e al mondo delle élite. Esso offriva loro l’opportunità di oltrepassare frontiere nazionali, geografiche, linguistiche e di genere. Sebbene spesso soggette a vincoli sociali e restrizioni, come seguire rigide norme di comportamento e preservare la reputazione e lo status sociale, il viaggio divenne occasione di valicare i confini della domesticità e fare rete.
L’esperienza del viaggio femminile nell’Ottocento si plasmò, inoltre, sotto la spinta di nuove condizioni che ne determinarono la natura; se da un lato il nuovo secolo favorì l’ascesa della borghesia, con conseguenti cambiamenti socio-culturali, l’espansione del turismo borghese e una sempre crescente disponibilità economica, dall’altro l’introduzione di mezzi di trasporto più sicuri e veloci grazie alla ferrovia e la modernizzazione delle strade, cosi come lo sviluppo dell’industria alberghiera, permisero di viaggiare in maggiore sicurezza e comodità. Per tali ragioni, molte donne, lasciando a casa le vesti bianche, i cappellini e piume, merletti e gioielli, si misero in viaggio volontariamente: alcune per esigenze personali, altre come accompagnatrici, per curiosità o desiderio di osservazione.
Immagine nella pagina: Litografia di M.me Louise Colet