Un piccolo incidente segna la traversata: una balena scuote la nave, attratta – dirà qualcuno – dai suoni melodiosi dello stradivario. L’arrivo a Petropavlovsk, capoluogo della penisola, non sembra destare l’entusiasmo della nostra viaggiatrice. È una città piena di stabilimenti commerciali russo-americani, poche le case e gli abitanti, che tuttavia accolgono i viaggiatori con sollecitudine offrendo pranzi e cene degni del paese di Cuccagna.
Dopo tre giorni di riposo, il viaggio riprende verso la foce dell’Amur, lambendo l’isola di Sachalin. La nostra viaggiatrice comincia a perdere entusiasmo e le sue descrizioni sono accompagnate da aggettivi eloquenti: triste e tristemente ricorrono costantemente e persino l’aurora boreale perde ogni interesse, poiché sparisce prima ancora che se ne abbia una chiara visione. Il ritorno da Ochotsk a Jakutsk diventa terribile poiché l’inverno siberiano è alle porte. Avanziamo a grandi passi nonostante le tempeste di neve e grandine che sferzano il viso… Si sprofonda nella neve fino al ginocchio, si rotola, ci si aggrappa come si può; se ci si dovesse occupare solo di sé, ma bisogna tirare con le redini i cavalli che si rifiutano di proseguire. Nella sua corrispondenza, ogni energia sembra scomparsa: questo eterno lenzuolo di neve che mi circonda mi dà i brividi. Ho appena percorso tremila vestre di pianura d’un tratto: neve, solo neve! Neve caduta, neve che cade, neve che cadrà!
Abbandonata la Siberia e giunta infine nel più mite Caucaso, riassume così il suo percorso in una lettera agli amici: Partita alla fine di dicembre 1848 e tornata a Kasan all’inizio di dicembre 1850, il mio viaggio è durato un anno e venticinque giorni circa. Ho percorso più di diciottomila vestre di strada. Ho visitato quindici città della Siberia (…) Ho attraversato più di quattrocento corsi d’acqua fra piccoli, medi e grandi (…) Ho percorso questa strada in slitta, in barroccio, in lettiga, trainata da cavalli, da renne o da cani; a volte a piedi, spesso a cavallo (…) Sono stata accolta fra i Kalmuti, i Kirghisi, i Cosacchi, (…) e perfino fra i selvaggi di Sakalin. Mi hanno ascoltata in luoghi in cui mai artista era giunto. Ho dato circa quaranta concerti, senza contare le serate private e le occasioni in cui ho suonato per il mio piacere. Questo è il bilancio della mia impresa. Pietra mossa non fa muschio, dice il vecchio proverbio e ne verifico appieno l’esattezza. Ho la morte nell’anima… sono felice come un sasso in piena tempesta.
Depressa, minata fisicamente dalle fatiche del viaggio, Lise giunge alla fine di settembre 1853 nella città di Novočerkassk sul Don, in cui infuria un’epidemia di colera. Ne sarà vittima lei stessa: muore infatti il 24 ottobre di quello stesso anno, a soli ventisei anni. Commossi dal destino tragico della musicista, gli abitanti le dedicano un monumento funebre in cui compare il fedele stradivario.
Lise non ha scritto memorie di viaggio come tante altre viaggiatrici. Ciò che sappiamo di lei è ricavato dalle lettere inviate alla famiglia e che la rivista francese di geografia Le Tour du monde pubblicò in parte nel 1863. Dalla lettura attenta di questo scarso materiale, emergono alcune incertezze. La prima riguarda le date: lei dice di essere giunta sul Don nel 1850 e muore nel 1853. Questi quasi tre anni di vuoto non sono ancora stati colmati da nessuna ricerca. L’altra domanda è più immediata: che fine ha fatto il prestigioso violoncello?
Riappare misteriosamente nel 1885 quando lo acquista da un collezionista il violoncellista Hugo Becker. Poi passa di mano in mano fino a giungere, agli inizi del 2000, al museo di Cremona in cui sono conservati i capolavori di Stradivari.
Immagine nella pagina:
Caravane russe et chinoise à Kiachta. D’après Atkinson.
Con il patrocinio del Comune di Bologna