… e sicuramente anche a Tunisi, Tripoli, Orano…

A qualcuno di voi sarà venuta la curiosità di sapere che cosa ci facesse un’italiana ad Algeri all’inizio dell’Ottocento e perché mai Rossini si fosse appassionato a questa storia tanto da farne un’opera buffa.
L’italiana in Algeri, rappresentata per la prima volta a Venezia il 22 maggio 1813, si ispira a un fatto di cronaca accaduto nel 1805, dunque pochi anni prima. Si racconta che una signora milanese, Antonietta Frapolli (o Frappolli, o Suini-Frappolli), in viaggio di piacere dalla Sicilia alla Sardegna, sia stata catturata dai corsari algerini insieme con altre persone e portata ad Algeri. La signora, presentata al Bey locale come merce rara, fu da lui accolta nel suo harem. Pare anzi che l’uomo di potere se ne sia perdutamente innamorato, tanto da farne la sua preferita e da suscitare la gelosia delle altre mogli e concubine.
Qualche anno dopo, la gentildonna fu rimpatriata a bordo di un vascello veneziano. Come abbia potuto lasciare Algeri, non si è mai saputo. Qualcuno insinua che nella fuga sia stata aiutata da una moglie trascurata del Bey. Si sa per certo che tornò libera senza riscatto. Le notizie intorno a questa vicenda sono frammentarie tanto più che la famiglia della donna e lei stessa non amavano rievocarla. Scrive una cronaca dell’epoca che
quando all’avventurosa dama milanese si rammentava il soggiorno fuori, essa rispondeva soltanto con un sorriso. Ma le malelingue ricamarono un po’. Si disse che
nell’harem algerino non aveva incontrato troppi dolori, se – continua sempre quella cronaca –
a cinquant’ anni, appena ne dimostrava una trentina.
L’italiana in Algeri tuttavia va ben oltre il fatto di cronaca, poiché con esso si rievoca una realtà storica, la guerra corsara e la conseguente schiavitù, che, dal Cinquecento fino al 1830 circa, animò
il Mare Nostrum e fu in qualche modo
l’espressione della secolare contrapposizione e al tempo stesso convivenza nel Mediterraneo del mondo europeo-cristiano e di quello musulmano, come chiarisce lo storico S. Bono. È una realtà in parte rimossa nella nostra storiografia forse perché possiede aspetti che in noi europei possono suscitare qualche serio imbarazzo. Di fatto la guerra corsara e la schiavitù furono praticate su entrambe le sponde del Mediterraneo e non soltanto su quella meridionale come abitualmente pensiamo. Pochi sanno, ad esempio, che a costruire la reggia di Caserta contribuirono settecento schiavi catturati sulle navi o sulle coste maghrebine (o barbaresche, come si diceva allora).
Tuttavia, prima di inoltrarci in questo percorso, è bene fare chiarezza: i termini
corsaro e
pirata non sono esattamente sinonimi. Pur esercitando la stessa attività, cioè assaltare navi, catturare merci e uomini, addentrarsi sulla terraferma per compiere razzie, i due sono nettamente distinti. Il corsaro opera con l’autorizzazione o persino in nome di uno stato, poiché ha ottenuto una sorta di licenza chiamata patente dopo un severo controllo delle sue capacità e dell’efficienza della sua imbarcazione.
Immagine nella pagina: Ritratto di Gioachino Rossini